DON QUADRIO

La vita di
don Giuseppe

La vita di don Giuseppe Quadrio non offre apparentemente nulla di straordinario, tale da attirare un’attenzione curiosa soltanto verso ciò che si coglie con gli occhi e con le orecchie esteriori. È come una di quelle abbazie del silenzio, che rivelano tutto il loro fascino in una sequenza di architetture armoniose, la bellezza delle quali è disegnata nella luce soltanto da pietre nude. Ma proprio nella penombra di questa essenzialità è possibile riconoscere l’inabitazione discreta del mistero. Si potrebbe al contrario affermare, senza pericolo di turbare la verità, che nella vita di don Quadrio tutto è stato straordinario. Quanto non lo fu per la vistosità, lo è stato per l’intensità e per il fascino sommesso insieme e fragoroso della grazia.

La sua vita è scandita dalle tappe di una crescita graduale, una delle tante, da catalogare tra quelle che si possono definire le più comuni a tutti coloro che nella quotidianità camminano lungo la stessa direzione.

Un’infanzia trascorsa in seno a una famiglia modesta, ma dignitosa di contadini, ricca però dei valori che più contano, la frequenza delle scuole primarie del paese, i giochi condivisi coi compagni e il crescere di responsabilità nelle piccole mansioni agricole e pastorali che si potevano assegnare a un fanciullo. Ma già da questo tempo si rivela in Beppino una maturazione precoce, una riflessività non comune, una capacità di intrattenersi con l’ospite interiore, a godere della cui intimità era stato sapientemente predisposto dalla mamma. La prima comunione è segnata da un cippo miliare, che rimarrà un punto di riferimento per il resto della vita. Risale già a questo tempo la fissazione di un codice di comportamento che richiama assai da vicino, come per una connaturalità quasi istintiva di spirito, i propositi di san Domenico Savio. In questo clima già incandescente nasce in lui il proposito di consacrazione totale al Signore nella vergnità perpetua.

La vocazione, che si potrebbe definire innata, si delinea più concretamente attraverso la lettura di una biografia di don Bosco. Il giovate pastorello di Vervio, sulle tracce di quello dei Becchi, sente crescersi dentro come una piena il desiderio di diventare sacerdote salesiano e di partire per le missioni. Entrato nell’istituto Giovanni Cagliero di Ivrea, inizia la tappa della propria formazione di aspirante. Una spiccata intelligenza gli permette di portare a termine il programma di due anni in uno solo. Per gli studi teologici sarà mandato a Roma alla Gregoriana. Dovrà quasi da subito rinunciare al suo sogno missionario, in vista del suo insegnamento in Italia. Come poi sempre nel futuro, giunto all’apice della propria preparazione, si vedrà destinato dal Signore a una nuova missione. La netta superiorità intellettuale, riconosciuta da insegnanti e compagni, non si trasformerà mai in motivo di invidia da parte di qualcuno dei suoi coetanei, data la sua capacità di dissimularla, con semplicità disarmante e in atteggiamento di mitezza e di servizio, e la sua delicata sensibilità nel confronto con gli altri, che lo spingeva a collocarsi sempre nelle retroguardie, dove la sapienza dell’Eterno si diverte a giocare coi più piccoli tra i figli dell’uomo.

Dopo due anni di tirocinio pratico a Foglizzo come assistente dei chierici e come professore di filosofia, ritorna a Roma per lo studio della teologia, di

nuovo allievo dei gesuiti. Sono anni difficili di guerra, nei quali un eroismo sottaciuto diventa per lui la pratica quotidiana. Fanno parte del suo olocausto di ogni giorno la privazione del proprio pane per donarlo a chi riteneva più bisognoso, la sanguinante sottrazione di tempo allo studio per stare coi chierici e con i ragazzi di strada a Roma, un vero martirio per lui, intellettuale nativo, la generosa dedizione all’ufficio di segretario di don Pietro Tirone: un intuitivo alle dipendenze di un discorsivo meticolosissimo. Ma sono anche gli anni dell’incandescenza spirituale. Molte pagine del diario, stilate in questo periodo, raggiungono una profondità e un’intimità con le persone divine, “suoi tre, sua famiglia”, degna dei più grandi mistici. Il culmine è raggiunto il 28 maggio, giorno di pentecoste, sedicesimo anniversario della sua prima comunione e nuovo battesimo nel fuoco divorante della fornace della grazia. Assume un nome nuovo, segreto: Docibilis a Spiritu sancto. Lascia scritto: «il mio sposalizio con te o dolce mio Spirito, mia anima, mio istinto, mio affanno, mio amore… Tu solo sarai l’affanno dolcissimo che farà palpitare il mio cuore». Dalla pubblicazione di queste annotazioni intime, la già diffusa convinzione di santità riceve il sigillo dell’autenticazione non richiesta, portando in evidenza come essa non costituiva una dote dovuta a un carattere felice, ma gli derivava da un combattimento interiore tenace e diuturno, non di rado intriso di sangue.

Si colloca in questo periodo l’unico avvenimento che si potrebbe considerare come straordinario nella vita di don Giuseppe. Per l’eccezionale lucidità dell’intelligenza e per la diligente e appassionata preparazione al proprio ministero futuro, il 12 dicembre 1946, è scelto dai professori della gregoriana come relatore di una solenne disputa aperta a tutti sulla definibilità del dogma dell’Assunta. Non è ancora sacerdote, neppure diacono. Ha solo venticinque anni. Deve difendere, usando la lingua latina, la possibilità di definire l’assunzione di Maria di fronte a un folto pubblico qualificato, a numerosi cardinali e vescovi. È presente, tra gli altri, monsignor Montini, il futuro papa Paolo VI. Dalla cronaca del giornale del Vaticano, si ricava un’impressione condivisa e inequivocabile: «Ieri sera, alle ore 16 ha avuto luogo nella pontificia università gregoriana una solenne disputa pubblica intorno alla definibilità del dogma dell’assunzione della Vergine santissima. Nella limpida prolusione il disserente (don Giuseppe Quadrio) mise principalmente in luce la definibilità dogmatica dell’assunzione corporea… Al disserente hanno quindi rivolto delle difficoltà monsignor Fares e il padre Reginaldo Garrigou Lagrange… Gli arguenti si sono arresi di buon grado alle risposte del disserente, che si è particolarmente distinto per modestia, sicurezza e padronanza». Commenta il prof. don Sabino Palumbieri: «Il suo resta un illuminante contributo alla ricerca previa al solenne evento della definizione dogmatica del 1950».

La modestia dimostrata in occasione della disputa, divenuta un suo abito mai dismesso, don Quadrio la conservò anche successiva mente, quando i confratelli o gli studenti ne facevano cenno come a una gloria di tutta la congregazione, nonostante che lo stesso Pio XII, si fosse interessato all’avvenimento di cui si parlava in quei giorni, mandando a chiedere una copia della prolusione e le risposte alle obiezioni presentate dai relatori, e la radio vaticana, non mai prodiga riferire semplici curiosità, ne avesse dato puntuale notizia.

Don Giuseppe divenne diacono il 2 febbraio 1947 e fu ordinato sacerdote il 16 marzo dello stesso anno. Neppure questo fu per lui un periodo tranquillo: ha dovuto preparare la licenza in teologia e iniziare la tesi in latino, sempre sul tema dell’assunzione, conclusa con il conseguimento della laurea con un risultato che, al suo approdo, ha giustamente riconosciuto i tanti sacrifici spesi nella ricerca e nel coordinamento dei dati: summa cum laude e medaglia d’oro.

Inizia da subito una nuova tappa della propria vita, quella del docente di teologia dogmatica prima e, poco più tardi, quando ancora era giovanissimo, di decano della facoltà. Dopo i primi passi nell’in segnamento, nei quali si coglie di riflesso qualche traccia di dipendenza dai propri maestri, si avvia decisamente su percorsi nuovi e incisivamente personalizzati da una profonda spiritualità, maturata di giorno in giorno nella macerazione della preghiera e del sacrificio. Il suo contributo ai corsi teologici ha portato immediatamente un clima di rinnovamento e di entusiasmo tra gli studenti dell’istituto teologico internazionale della Crocetta. In anticipo sui tempi e aggiornatissimo sulla panoramica degli studi, riuscì a prevenire con sagacia d’amore le future direttive di fondo del concilio Vaticano II, prima ancora del suo annuncio.

Promosse lo studio della scrittura come fondamento di tutta la teologia nelle sue diverse ramificazioni, riporto all’incandescenza delle origini la dimensione trinitaria e l’amore per la chiesa, la “sposa di sangue”, intuì la relazione profonda tra liturgia e catechesi, auspicò il ritorno della morale ai fondamenti biblici e alla tradizione antica, sfoltendo le incrostazioni della casistica compiaciuta di se stessa, promosse il dialogo tra scienza e fede, approfondendo la teoria dell’evoluzionismo, fino a divenire uno dei più richiesti specialisti nel settore (si vedano gli articoli commissionatigli dall’Enciclopedia ecclesiastica), si interessò della morale sociale della chiesa, studio il Capitale di Marx, per entrare in dialogo coi comunisti, affermando che essi non erano nemici da combattere quanto piuttosto fratelli da amare, si è sforzato di far gustare la bellezza del matrimonio cristiano come prolungamento del grande mistero dell’unione sponsale di Cristo con la chiesa e come proiezione della chiesa universale nel seno della chiesa domestica, chiamata come la grande alla santità, previde il ruolo che sarebbe stato assegnato ai laici nella comunità cristiana e precorse i tempi nella promozione della dignità della donna. Soprattutto sostenne con l’insegnamento e con l’esempio una coerenza senza incrinature tra scienza e sapienza di vita.

R. BRACCHI (a cura di), Diario e pensieri, 17-21.